LA CASSAZIONE E IL FALLIMENTO DELL’IN HOUSE: L’ENNESIMA CONFERMA DELLA CORTE

La Cassazione, di recente, si espressa nel senso della fallibilità delle società c.d. “in house”; infatti, con la sentenza n. 5346 del 22/02/2019, la Corte ha sancito la piena assoggettabilità delle stesse alle procedure concorsuali previste dalla (ormai superata) Legge Fallimentare.

Occorre operare una puntualizzazione: la sentenza in commento ha cassato una pronunzia della Corte d’Appello dell’Aquila intervenuta antecedentemente all’introduzione nel nostro ordinamento del D. Lgs. N. 175/2016 il quale disciplina, in modo organico, le società a partecipazione pubblica (compresa la gestione della loro crisi).

La questione controversa riguarda una società di riscossione compartecipata, in modo totalitario, da diversi enti locali la quale fu investita dalla sentenza dichiarativa di fallimento pronunziata dal Tribunale di Pescara.

Avverso suddetta sentenza, fu proposto ricorso, dinanzi la Corte d’Appello dell’Aquila, da parte dell’amministratore della societa’ fallita; la pronuncia del giudice di seconde cure produsse la revoca del fallimento basandosi sul rilievo che per la ricorrente, adottando il modello organizzativo “in house”, il fallimento fosse incompatibile in ragione della sua parificazione, formulata dallo stesso collegio giudicante, agli enti pubblici. In buona sostanza, alla base della revoca vi fu, in via preliminare, l’accertamento dei requisiti necessari alla configurazione dello schema in house in capo alla fallita (il controllo analogo, la partecipazione pubblica totalitaria e l’erogazione di servizi, in modo esclusivo, nei confronti dei soggetti compartecipanti), per poi sancire una (discutibile) parificazione di

tali modelli societari agli enti pubblici (venne utilizzata la frase “…in qualche misura parificabile…”).

In costanza di processo, fu varato dal legislatore il “Testo unico sulle società partecipate” (una delle declinazioni della c.d. “riforma Madia” la quale investi’ l’intera P.A.) il quale previde espressamente, nell’articolo 14 comma 1, il pieno assoggettamento delle partecipate pubbliche (ivi comprese le c.d. in house) alle procedure concorsuali (fallimento, concordato preventivo, nelle sue declinazioni in continuità ovvero liquidatorio e l’accordo di ristrutturazione del debito). La norma, ad oggi invariata, recita testualmente: “Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese…”.

Per completezza espositiva, la norma in commento, nel comma 6,

interdisse le amministrazioni pubbliche, controllanti società affidatarie dirette di servizi, di:

✓ costituire nuove società;
✓ acquisire o mantenere partecipazioni in società

nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento, qualora le stesse avessero per oggetto i medesimi servizi della società dichiarata fallita.

Appare evidente che l’intento del legislatore fosse quello di impedire all’ente pubblico di costruire “nuovi contenitori societari” finalizzati alla continuazione della gestione diretta dei servizi lasciando, nei fatti, il prodotto della malagestio all’interno delle procedure concorsuali.

Seppur non in modo definitivo, l’introduzione del D. Lgs n. 175/2016 diede un rilevante contributo alla contrapposizione tra diritto pubblico e diritto privato in materia di società pubbliche; infatti, la questione dell’applicabilità alle stesse

delle norme sul diritto societario produce i suoi riflessi nell’ambito della concorrenza, soprattutto, per gli, eventuali, effetti distorsivi che un regime derogatorio provocherebbe al mercato.

Ritornando alla sentenza, la Cassazione cristallizza il principio di diritto secondo il quale la societa’ di capitali a partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto privato risultando, quindi, irrilevante il fatto che il capitale (in tutto o in parte) sia posseduto da enti pubblici (le vicende societarie sono svincolate dalla persona dell’azionista): infatti, la società, quale persona giuridica privata, opera nell’esercizio della sua autonomia negoziale. In buona sostanza, secondo il collegio, il rapporto intercorrente tra società e l’ente partecipante e’ caratterizzato da una sostanziale autonomia non potendo l’ente stesso incidere unilateralmente sul rapporto in commento quale esercizio di poteri autoritativi e discrezionali (diversamente da quello che interviene nei confronti di un suo Ufficio interno).

La Corte, inoltre, richiama una pronunzia del Consiglio di Stato, seppur riferita al riparto delle competenze giurisdizionali (tra giudice ordinario e quello amministrativo) negli affidamenti in house, la quale sancisce che nonostante la forte influenza dell’ente partecipante, attraverso il c.d. “controllo analogo”, sul soggetto giuridico partecipato (quasi a configurare uno strumento derogatorio al meccanismo ordinario che lega proprietà e amministrazione) questo non può incidere sull’alterità soggettiva della società rispetto all’ente partecipante; infatti, la Corte incalza sottolineando che la società in house configura un autonomo centro d’imputazione di posizioni giuridiche soggettive rispetto all’ente pubblico il cui ruolo e’ ascrivibile alla figura di mero socio (il quale puo’ esercitare tutte le prerogative a questi attribuite dal diritto societario e non da specifici poteri pubblicistici).

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In aggiunta a questi elementi esaustivi, la Cassazione richiama il testo dell’art. 1 della Legge Fallimentare la quale esclude espressamente dal perimetro della concorsualità gli enti pubblici ma non le loro proiezioni societarie.

In conclusione, ormai risulta evidente la possibilità per le partecipate pubbliche, a qualsiasi livello, di accedere agli strumenti messi a disposizioni dal legislatore per la composizione della crisi di impresa, scelta, a parere dello scrivente, necessaria ai fini di garantire parità di trattamento per tutti i player di settore.

Categoria: Analisi & Studi

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