Esposizione, prossimità, aggregazione. Sarebbero questi i tre criteri su cui la sterminata schiera di scienziati ed esperti reclutata nelle scorse settimane dal governo si baserà per valutare il livello di rischio di ogni attività e i tempi del suo ritorno alla normalità. Il metodo di misurazione è contenuto in un documento che dovrebbe essere (la proliferazione di comitati tecnici rende impossibile la certezza) sul tavolo della task force guidata da Vittorio Colao ed è sviluppato sul modello del Bureau of Labor of Statistics statunitense, corretto con i dati nazionali prodotti da Istat ed Inail. In sostanza, si calcola la probabilità di venire in contatto con fonti di contagio nello svolgimento della propria attività lavorativa (esposizione), la possibilità di mantenere un sufficiente distanziamento sociale nello svolgimento del lavoro (prossimità) e il numero di estranei con cui alcuni mestieri sono costretti ad entrare in contatto (aggregazione). Poi si mescola il tutto e si crea una tabella colorata. Verde, rischio basso; giallo, medio basso; arancio, medio alto; rosso, alto. Tutti i dipendenti italiani sono spinti all’interno delle caselle che decideranno il destino dell’intero Paese. Rischio alto e medio alto, si parte per ultimi. Rischio basso e medio basso, si potrà immaginare una ripresa delle attività nelle prossime settimane.
Tutto risolto? Non proprio. Sulla carta la partita sembra facile. Nel dossier compare una lista di misure di buon senso volte a garantire la sicurezza dei lavoratori e a scongiurare il rischio di un’altra ondata pandemica. Si parla della sanificazione dei luoghi di lavoro, degli spazi necessari allo svolgimento delle attività, delle adeguate protezioni individuali, della riorganizzazione dell’attività, degli orari, della formazione del personale, della tutela dei soggetti più fragili. Ma è chiaro che una programmazione seria della riapertura delle singole attività richiederà ben altra attenzione e ben altro sforzo agli oltre 450 consulenti di cui l’esecutivo si è rapidamente contornato per scaricare il peso delle proprie decisioni (e responsabilità) sulla scienza. Ed è altrettanto chiaro che alla fine le scelte non potranno non essere politiche, visto che in nessun caso il Paese potrà ripartire con un rischio zero, se non tra un numero di mesi tale che il tessuto produttivo e sociale sarà totalmente disintegrato, e in nessun caso l’attività potrà essere svolta in totale sicurezza.
Tra questo e la possibilità di affidarsi alle tabelle colorate per riportare i lavoratori in azienda, però, ce ne passa. Tanto per cominciare, gran parte delle professioni che in base ai tre criteri sono caratterizzate da rischio alto sono quelle rimaste aperte per evidenti motivi: dalla sanità alle forze dell’ordine. Una valutazione squisitamente tecnica avrebbe lasciato aperti i cantieri (rischio basso) e chiuso ospedali e caserme (codice rosso). Possibile? Auspicabile? Evidentemente no. E la politica ha giustamente deciso in maniera diversa. A dimostrazione del fatto che difficilmente potrà essere un virologo, con tutto il rispetto per le sue preziose ed utilissime conoscenze, a decretare la fine dell’emergenza. Un caso emblematico dello sforzo aggiuntivo che sarà necessario per entrare nella cosiddetta fase 2 è quello dei trasporti, sorprendentemente considerato dai tecnici, tranne quello aereo, a rischio basso o medio basso. I lavoratori addetti al trasferimento di persone e cose sono ovviamente rimasti in prima linea, con dedizione e spirito di sacrificio, anche nella fase più acuta della pandemia. Non sarebbe potuto essere altrimenti. E il lockdown ha in qualche modo aiutato, consentendo lo svolgimento delle attività in condizioni di relativa sicurezza a causa della scarsità di mezzi e persone in circolazione. Ma in un’ottica di ritorno, seppure graduale, alla normalità, per quale motivo il cameriere dovrebbe essere considerato un mestiere pericoloso e l’autista di bus no? E come pensano gli scienziati di limitare il rischio di contagio fra gli utenti?
Il tema è tutt’altro che marginale. I trasporti, in particolare quelli pubblici locali (il Tpl) sono essenziali al Paese almeno quanto lo sono la sanità e il servizio di approvvigionamento di beni alimentari. Costituiscono l’asse portante e ineliminabile di qualsiasi attività. Ed ecco il paradosso: il settore che dovrebbe essere il primo volano per la ripartenza della vita produttiva rischia di diventare la trappola che ci riporterà nella fase pandemica. Intendiamoci, la situazione è nuova e sconosciuta. E nessuno ha in tasca le risposte giuste. Ma il dovere delle istituzioni dovrebbe essere almeno quello di porsi le domande pertinenti.
- Come si garantisce il distanziamento sociale sui treni, sugli autobus, sui tram, sugli aerei, sulle navi traghetto?
- Come si garantisce il distanziamento sociale nelle fasi di salita e discesa, nonché di affluenza ai treni, agli autobus, ai tram, agli aerei, alle navi traghetto?
- Come si garantisce la sicurezza del personale che opera sui mezzi durante l’orario di lavoro?
- Come devono essere attrezzati i luoghi di ristoro, incontro, gestione del personale nei vari impianti?
- Quali modifiche dovranno essere apportate ai Documenti di valutazione dei rischi obbligatori per ogni azienda?
- Se l’infezione da COVID-19 è parificata all’infortunio sul lavoro, i postumi della malattia saranno classificabili fra le invalidità sul lavoro?
- Come faranno le aziende a rendere compatibili i costi del viaggio con l’abbassamento drastico del coefficiente di riempimento dei mezzi di trasporto?
Lo scenario che si prospetta, se le indiscrezioni che circolano hanno un minimo di verità e se saranno rispettate le indicazioni di massima contenute nel documento sui livelli di rischio, è un trasporto pubblico dove treni, aerei e bus dovranno essere per legge semivuoti, con tutte le difficoltà del caso. La prima, è fare in modo che lo siano davvero sui mezzi destinati agli spostamenti locali, dove saranno necessari controlli e contingentamento degli accessi ad ogni, e ribadisco ogni, fermata. La seconda, dando per scontato che sulle lunghe distanze, sul trasporto aereo e navale basterà limitare l’emissione dei biglietti, sarà quella di convincere un’azienda ad erogare il proprio servizio in perdita per un numero non definito di mesi.
La quadra, ad oggi, non sembra dietro l’angolo. Ed è per questo probabilmente che il governo continua ad invitare alla cautela, a frenare ogni richiesta di sblocco e di allentamento delle misure restrittive. Nell’impossibilità di trovare una soluzione, meglio che tutti restino a casa. Ma la ricetta non può durare a lungo. Anzi, non può durare e basta. Dopo circa due mesi di chiusura il Paese ha bisogno di tornare in strada, per lavorare, guadagnare e consumare. E per quanto sia complicato farlo, il governo ha l’onere di rendere possibile e praticabile la fase 2. Come si è visto nel caso dei trasporti, la soluzione non potrà essere trovata in una serie di regole uguali per tutti. Sarà necessario individuare le esigenze specifiche di ogni settore, le sue caratteristiche, i suoi rischi e la sua compatibilità economica. Un lavoro immane, che richiede competenza e tempo. Della prima, considerato il numero di esperti arruolati, sembra che ce ne sia in abbondanza. Ma il secondo è già scaduto. E la sensazione è che quello finora a disposizione sia stato usato per tutt’altri scopi.