Il datore di lavoro non è tenuto ad escludere le assenze per malattia del lavoratore disabile dal periodo di comporto previsto dal CCNL di riferimento se quest’ultimo non contempla specificamente tale obbligo. Di conseguenza, in caso di licenziamento per raggiungimento del numero massimo di assenze per malattia, tale recesso non è necessariamente discriminatorio per non aver considerato in maniera diversa l’omessa presenza in servizio per ragioni di salute del dipendente affetto da handicap.
Con tale principio di diritto il Tribunale di Bologna, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 230 del 19 maggio 2022, ha definito il caso di una lavoratrice licenziata dal proprio datore per superamento del periodo di comporto previsto dal contratto collettivo , la quale ne invocava la nullità per discriminatorietà. In particolare, la ricorrente esponeva di essere invalida civile al 70% sin dal 2015 e di aver ricevuto un giudizio di riduzione permanente della capacità lavorativa dal 34 al 75%: i giorni di assenza dal luogo di lavoro per malattia erano dunque da ricondursi alle gravi e numerose patologie di cui soffriva in ragione della sua condizione particolare e che pertanto il recesso intimato in base alla sola rigida applicazione delle previsioni della contrattazione collettiva era da ritenersi illegittimo perché posto in violazione della Direttiva europea 2000/78/CE, recepita in Italia dal D. Lgs. n. 216/2003, che mira a garantire la parità di trattamento fra le persone indipendentemente da molteplici fattori di rischio, tra cui l’handicap. Chiedeva dunque la reintegrazione nel posto di lavoro con pagamento di una indennità risarcitoria.
Il datore di lavoro, dal suo canto, eccepiva di non aver mai avuto conoscenza dello stato di invalidità civile al 70% della ricorrente, né al momento dell’assunzione né in epoca successiva, né tantomeno tale informazione gli era stata in qualche modo trasmessa. Deduceva, inoltre, che la ricorrente non aveva mai informato del riconoscimento della riduzione permanente della capacità lavorativa avvenuto in costanza di rapporto di lavoro.
Il giudice felsineo, pur riconoscendo la presenza di un indirizzo giurisprudenziale che, negli ultimi anni, ha dichiarato illegittimi per discriminazione indiretta i licenziamenti irrogati per superamento del comporto nei confronti di lavoratori disabili assenti per malattia senza scomputo degli eventi direttamente connessi a tale condizione, ha deciso di rigettare la domanda presentata sulla base di precise argomentazioni.
Secondo il Tribunale di Bologna, infatti, lo scopo delle regole dettate dall’art. 2110 cod. civ. in tema di assenze per malattia è quello di contemperare gli interessi confliggenti delle parti: da una parte, l’interesse del lavoratore, anche disabile, a conservare il posto di lavoro e, dall’altra, quello del datore a non diverso dare carico a tempo indefinito del contraccolpo che le assenze cagionano all’organizzazione aziendale. Ebbene, il contemperamento di questi due interessi confliggenti trova, nel nostro ordinamento, “la sua sede naturale nella contrattazione collettiva” con la conseguenza che “sono le parti sociali ad individuare in che misura e fino a che punto possa riversarsi sull’imprenditore il rischio dell’assenza dal lavoro del dipendente per malattia”. Siccome nel caso di specie il contratto collettivo non compie alcuna distinzione tra comporto del lavoratore disabile e comporto riconosciuto alla generalità dei lavoratori, il bilanciamento è stato rispettato.
Né secondo il Giudice può ritenersi questa previsione collettiva in contrasto con il diritto anti-discriminatorio di matrice europea. Malattia ed handicap, infatti, sono, secondo il Tribunale, concetti del tutto separati e distinti, sicchè un lavoratore licenziato per causa di malattia non può invocare la tutela offerta ai disabili dalla Direttiva europea del 2000. Del resto, la Corte di Cassazione ha già affermato che “una persona licenziata esclusivamente a causa di malattia non rientra nel quadro generale per la lotta contro la discriminazione […]. Anche se la nozione di handicap … va intesa come un limite che deriva da minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale, è esclusa un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni di handicap e di malattia” (cfr. Cass. n. 30478/2021).
Inoltre, il Giudice di Bologna ha dato particolare peso al fatto che la lavoratrice non aveva mai comunicato la sua particolare condizione al datore di lavoro. Si legge nella sentenza: “sebbene la discriminazione indiretta, come elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, notoriamente operi sul piano oggettivo, a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro, nel caso di specie tuttavia, ove si volesse affermare, in astratto, l’obbligo del datore di espungere dal comporto le assenze collegate allo stato di invalidità del dipendente, allora però necessariamente occorrerebbe, al fine di rendere esigibile detto obbligo, imporre al dipendente l’onere di comunicare al datore quali assenze siano riconducibili alla malattia invalidante, stante l’oggettiva impossibilità per il datore di lavoro di controllare detto nesso causale non essendo a conoscenza della diagnosi dei certificati di malattia di cui normalmente viene a conoscenza solo in sede di impugnazione del recesso”.
Il licenziamento è dunque stato giudicato legittimo, con conseguente rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice affetta da disabilità.
Prof. Avv. Paolo Pizzuti
Avv. Gennaro Ilias Vigliotti
Avv. Giuseppe Catanzaro