L’attività interpretativa dei contratti collettivi deve basarsi su due criteri che si integrano vicendevolmente, ossia il senso letterale delle espressioni utilizzate dalle parti contraenti e la ratio che ispira il precetto contrattuale oggetto di interpretazione.
È quanto ha affermato in una recente sentenza la Corte di Cassazione (n. 28522/2022) conoscendo il caso di alcuni lavoratori che si erano rivolti al giudice al fine di vedersi riconosciuto il diritto a percepire, anche dopo la disdetta da parte della società dell’accordo integrativo aziendale, la voce retributiva “ex premio aziendale individuale ad personam”. La Corte d’Appello aveva rigettato la predetta domanda, ritenendo – dopo un ampio excursus delle fonti contrattuali di natura collettiva (nazionale e aziendale) applicate nel tempo – che il tenore testuale del contratto aziendale non consentisse di ravvisare la volontà delle parti di mutare la natura collettiva del premio aziendale fisso in emolumento di natura individuale. Avverso la sentenza della Corte i dipendenti avevano presentato ricorso in sede di legittimità, insistendo per la domanda.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha rilevato che le clausole dei contratti collettivi debbano essere sempre oggetto di interpretazione, anche quando le parti sociali abbiano utilizzato delle espressioni letterali chiare, ma, nonostante ciò, non univocamente intellegibili. L’interpretazione degli atti negoziali, infatti, ove rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e sorretta da motivazione esente dalle anomalie denunciabili ex articolo 360 c.p.c., n. 5, va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale, nell’ambito non già di una priorità di uno dei due criteri, ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi d’interpretazione, i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale (v. anche Cass. n. 6484 del 1994; Cass. n. 701 del 2021).
In particolare, è stato precisato che nell’interpretazione di un contratto collettivo, il principio “in claris non fit interpretatio” non trova applicazione quando le espressioni letterali utilizzate, benché’ chiare, non siano univocamente intellegibili, sicchè in detta ipotesi dovrà ricercarsi la comune intenzione delle parti facendo ricorso a tutti i criteri ermeneutici rivelatori della volontà dei contraenti (Cass. n. 4189 del 2020).
Ebbene, nel caso di specie, la Corte territoriale, nella sentenza impugnata, aveva escluso che la voce retributiva “ex premio aziendale individuale ad personam” costituisse, per effetto di novazione, un premio incorporato nei singoli contratti individuali e come tale insensibile a modifiche non consensuali, ed ha confermato la natura collettiva di detto emolumento, ricostruendo la volontà delle parti collettive non solo alla luce del criterio letterale evincibile dal tenore lessicale della disposizione segnalata dai lavoratori, ma anche delle altre disposizioni del medesimo e di altri strumenti negoziali, e verificando la coerenza del significato attribuito al testo con gli scopi perseguiti dalle parti, consistenti nella riconduzione ad uniformità di multiformi erogazioni economiche (correlate ai risultati) percepite da lavoratori che provenivano da diverse realtà aziendali. Il percorso logico di ricostruzione della comune volontà delle parti effettuato dalla Corte territoriale era dunque stato, secondo la Cassazione, rispettoso dei criteri ermeneutici dettati dall’ordinamento.
Inoltre, secondo la Corte Suprema nell’interpretazione del contratto collettivo è necessario procedere, ai sensi dell’articolo 1363 c.c., al coordinamento delle varie clausole contrattuali, anche quando l’interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole, senza residui di incertezza, poiché’ l’espressione “senso letterale delle parole” deve intendersi come riferita all’intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale e non già limitata ad una parte soltanto, qual e’ una singola clausola del contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e confrontare fra loro frasi parole al fine di chiarirne il significato, tenendo altresì conto del comportamento, anche successivo, delle parti (Cass. n. 18969 del 2015; nello stesso senso, Cass. n. 19779 del 2014, Cass. 9755 del 2011, Cass. n. 3685 del 2010). Nella sentenza impugnata nessun contratto individuale (compresi quelli dei ricorrenti) ha previsto e disciplinato il premio aziendale fisso né risulta allegato (provato) che i lavoratori ricorrenti abbiano trattato (o abbia dato incarico specifico all’organizzazione sindacale di trattare) con la società il diritto a percepire tale voce retributiva. Anche sotto questo profilo la Cassazione ha confermato la decisione d’appello e respinto il ricorso, confermando la non debenza delle somme richieste dai ricorrenti.
Prof. Avv. Paolo Pizzuti
Avv. Gennaro Ilias Vigliotti
Avv. Giuseppe Catanzaro