Il concetto di “mobbing sui luoghi di lavoro” si è un argomento di cui si è molto discusso negli ultimi anni sia dal punto di vista giuslavoristico che giurisprudenziale, creando numerose divisioni di vedute al riguardo.
Il termine mobbing, giova precisare, si riferisce a un insieme di comportamenti ostili, aggressivi, intimidatori, discriminatori, reiterati nel tempo mirati su una persona o gruppi di individui che può causare gravi danni psicologici e fisici.
Lo straining, invece, è riferito a una singola azione con effetti duraturi nel tempo, per cui si differenzia dal mobbing soprattutto per un discorso di continuità dell’atteggiamento persecutorio, ma può generare le medesime conseguenze legali.
Entrambi questi fenomeni sono stati spesso oggetto di cause di lavoro che hanno portato i vari giudici a esprimersi in maniera abbastanza netta sulla questione delineando un percorso che porta a collegare “l’atto persecutorio” al danno da ambiente di lavoro, alla sicurezza sui luoghi di lavoro, con le logiche conseguenze del caso.
A tal proposito, in questi ultimi tempi, emerge chiaramente anche dai giudici di legittimità l’orientamento con il quale si specifica che non cade in preclusioni il ricorrente che configura erroneamente come mobbing le condotte ostili del datore di lavoro: se il lavoratore ha dedotto la violazione dell’art. 2087 cod. civ. (Tutela delle condizioni di lavoro), ha comunque diritto al risarcimento del danno, e ciò ogni qual volta riesca a provare il pregiudizio sofferto, la condotta illecita e il nesso di causa causale tra danno e ambiente di lavoro.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 19196 del 12 luglio 2024, torna nuovamente sul tema della risarcibilità dei danni occasionati dall’ambiente lavorativo: mobbing e straining sono nozioni medicolegali, ragion per cui è sufficiente che la domanda si fondi sull’art. 2087 cod. civ.
Tale disposizione è infatti una “norma generale posta a tutela della salute e delle dignità del lavoratore, retta da un principio di atipicità”: il giudice è quindi tenuto a verificare l’illiceità delle condotte dedotte, e il danno è risarcibile anche quando i comportamenti datoriali, pur slegati da intento vessatorio, siano stati realmente in grado di incidere “sull’equilibrio psicofisico o sulla dignità” del dipendente.
In questi termini, si legge nell’ordinanza sopracitata, “l’eventuale qualificazione delle condotte lesive come mobbing o straining da parte del lavoratore che agisca per la tutela dei propri diritti non vale a integrare alcuna limitazione della domanda medesima, la quale è – e resta – una domanda basata sulla regola generale di cui all’art. 2087 c.c. in tutte le sue manifestazioni e indipendentemente dalla qualificazione tecnica delle condotte”.
Nel caso oggetto della pronuncia ha quindi errato la Corte d’Appello competente che, accertando alcune circostanze di fatto allegate dal ricorrente e avendo esclusa la sussistenza “di un medesimo fine persecutorio”, ha rigettato il ricorso.
La Corte, difatti, sostiene la Cassazione, avrebbe dovuto prima verificare se tali episodi, per quanto non caratterizzati da intenti vessatori, fossero in grado di integrare una lesione della salute o della dignità del lavoro imputabile al datore di lavoro. Da tale positiva analisi, difatti, avrebbe potuto discenderne l’accertamento della responsabilità datoriale e il risarcimento del danno, indipendentemente dalla qualificazione medicolegale attribuita ai fatti.
Se la condotta datoriale viola l’art. 2087 c.c. il risarcimento è comunque dovuto!
Da qui l’accoglimento del ricorso, con rinvio alla Corte d’Appello per conformarsi ai principi ora indicati.
C’è da chiedersi ora, alla luce di quest’ordinanza, se il fenomeno del mobbing e dello straining potranno essere in futuro oggetto di aggiornamenti/integrazioni anche per quel che concerne il Testo Unico sulla sicurezza D.lgs. 81/2008 e come le aziende e le parti sociali dovranno “muoversi” per affrontare il tema dell’atteggiamento persecutorio che viene giudicato lesivo dei diritti dei lavoratori.