L’art. 36 della Cost. sancisce che “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” e che la durata massima della giornata lavorativa deve essere regolata dalla legge, garantendo il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite. Considerato che l’Italia, rinviando ai CCNL la normazione dell’orario normale/massimo di lavoro, mediamente si attesta sulle 8 ore giornaliere (40 settimanali) che di fatto non definisce esplicitamente, creando così un’area grigia normativa che lascia spazio a interpretazioni e polemiche. Gli esperti, infatti, sono soliti affermare che, stabilendo la legge solo il riposo minimo giornaliero (11 ore), ogni giorno si può lavorare 13 ore, ma tale deduzione, evidentemente e fortunatamente, non è condivisa da tutti pur creando conflittualità nei luoghi di lavoro.
In questo contesto, la recente discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro settimanale a 36 ore, proposta da diversi partiti politici e sostenuta dai sindacati, rappresenta certamente un tentativo di rispondere alle esigenze moderne del mondo del lavoro, basandosi sull’idea che una riduzione dell’orario possa migliorare la qualità della vita delle maestranze, aumentando la loro efficienza e soddisfazione, senza compromettere la produttività.
Le Proposte di Riduzione dell’Orario di Lavoro
Diverse sono le proposte di legge presentate in Parlamento che mirano alla riduzione dell’orario: 1) il M5S propone una settimana lavorativa di 32 ore con la possibilità, per sindacati e imprese, di stipulare contratti specifici in tal senso anche con l’utilizzo di un incentivo contributivo di € 8.000 annui per tre anni; 2) Alleanza Verdi e Sinistra spinge per le 34 ore settimanali, mantenendo la parità di salario e istituendo un fondo per incentivare i datori che riducono l’orario settimanale almeno del 10%; 3) il PD, con una proposta firmata da A. Scotto e da E. Schlein, punta a una riduzione progressiva e sperimentale dell’orario di lavoro con l’uso di incentivi contributivi del 30% (40% per i cd. “lavori usuranti”) e la creazione di un Osservatorio nazionale sull’orario.
Opinioni di Confindustria e dei Sindacati
Temendone l’impatto su produttività e costi operativi, Confindustria ha espresso preoccupazioni riguardo a tali ipotesi, soprattutto per il difficile sostegno alla competitività internazionale che esse possono causare.
Dall’altra parte della barricata, ovviamente, i sindacati appoggiano la riduzione dell’orario vedendola come una miglioria della qualità della vita dei lavoratori senza intaccarne il reddito. CGIL, CISL e UIL supportano l’iniziativa e vorrebbero includere la materia nei nuovi contratti collettivi ritenendo che detta riduzione possa portare a una maggiore soddisfazione dei dipendenti, riducendo lo stress e aumentando la produttività a lungo termine.
La Confsal parte dal principio che il lavoro sta cambiando notevolmente e che la tecnologia deve sempre aiutare l’uomo nelle attività più stressanti, ripetitive e faticose. Quindi, una visione prospettica positiva dello sviluppo del lavoro si contrappone a chi, in maniera luddista, contrasta l’inevitabile sviluppo tecnologico. Nei nuovi contratti di lavoro, la Confsal ha proposto la settimana corta con una distribuzione dell’orario di lavoro settimanale su 4 giorni, fissato a 36 ore. Questo contratto di lavoro è stato già sottoscritto con Associazioni Datoriali illuminate che ricercano il confronto con il sindacato per una conciliazione vita/lavoro adeguata e una giusta retribuzione, considerando il grande tema salariale strettamente legato all’orario di lavoro, produttività e conciliazione vita/lavoro. Temi che non devono essere affrontati direttamente dal legislatore, ma attraverso il ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva che deve guidare lo sviluppo del diritto del lavoro.
Invece, dopo la polemica sul salario minimo che annaspa tra le proposte di legge e le discussioni sui talk show, si aggiungono le proposte di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro settimanale. Anche come FAST-Confsal, in fase di rinnovo contrattuale, il tema è ben presente ed è stato discusso nella conferenza di federazione tenutasi a Montesilvano (PE) nella prima settimana di giugno scorso, dove è stato dato mandato alla segreteria generale di perorare la riduzione dell’orario di lavoro a 36 ore settimanali in occasione dei prossimi rinnovi. Premesso ciò, riteniamo necessario ora analizzare lo stato dell’arte della discussione aperta in merito alla riduzione dell’orario di lavoro settimanale.
La Posizione del Governo Meloni
Il Governo ha mostrato una cauta apertura verso la questione in parola, avanzando qualche condizione.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, A. Urso, ha dichiarato che l’introduzione della settimana corta debba dipendere dalle condizioni economiche del Paese, enfatizzando in primis la necessità di migliorare la produttività e concentrare gli investimenti nelle aree critiche del Sud e per l’occupazione e puntando sull’aumento della produttività attraverso investimenti tecnologici.
Il Sottosegretario al Lavoro, C. Durigon, ha ribadito che qualsiasi discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro debba invece essere preceduta da un miglioramento significativo della produttività delle imprese italiane e da una attenta valutazione del possibile impatto negativo di tale misura sulla competitività.
La Sfida della Normazione Chiara
Al netto delle polemiche e delle proposte in corso, non esiste una norma ben definita che applichi efficacemente la norma costituzionale richiamata in tema di orario massimo di lavoro giornaliero e la politica, che sembra voler normare ogni aspetto del lavoro, a volte trascura di chiarire aspetti fondamentali che potrebbero risolvere molte delle attuali questioni.
L’Italia appartiene all’OIL dal 1919 e all’UE dalla nascita e si impegna a rispettare le norme internazionali sul lavoro e, tra queste, le 8 ore giornaliere che, insieme alle ferie non sembrano esse in discussione. Il nostro recepimento delle norme europee sull’orario di lavoro, per la maggior parte, è inserito nel d.lgs. n. 66/2003 che rinvia la materia ai CCNL di settore (le cd. “soft laws” cui la famosa “legislazione di sostegno” degli anni ‘60 e ‘70 si appoggiò per facilitare l’intervento sindacale).
Prendendo ad esempio il CCNL dell’Industria Metalmeccanica che prevede 40 ore settimanali (2080 annue e 173 ore medie mensili) che, con l’utilizzo delle 104 ore di ROL ed ex festività, porta l’orario di fatto a 38 (2080-104 = 1976/52). In termini di lavoro straordinario, lo stesso CCNL limita a 200, per la maggior parte delle aziende del settore, le 250 ore annue massime previste dal d.lgs. n. 66/2003 con un massimo individuale di 2 ore giornaliere e 8 settimanali. Altri CCNL, sulla scorta del settore pubblico in cui arduo appare l’equilibrio fra riduzione produttività ed efficienza, già sono arrivati a 38 (Attività ferroviarie) e 36 ore (Sanità privata) con l’assorbimento o meno dei permessi.
Conclusioni
Le tesi autoreferenziali di Confindustria, che teme l’aumento dei costi e degli obblighi assuntivi nel caso di una riduzione dell’orario di lavoro, non risolvono comunque i problemi del 90% del tessuto produttivo italiano (piccole e microaziende) che non potrebbero reggere un impatto forte della riduzione stessa, soprattutto in termini di straordinario che -spesso- vede pratiche di pagamento poco lecite.
La discussione che appare all’orizzonte rappresenta una sfida complessa che coinvolge molteplici attori e interessi. Da un lato c’è la necessità di migliorare la qualità della vita dei lavoratori e di adattare le condizioni di lavoro alle moderne esigenze socioeconomiche, dall’altro, c’è la giusta preoccupazione per la produttività e la competitività delle imprese italiane. Si fa rilevare comunque che molti auspicano un aumento della produttività, ma pochi si interessano della questione salariale che, sicuramente, non può essere risolta col minimum wage, creando un circolo vizioso che necessita di soluzioni concrete. Ed anche il passaggio da 40 a 36 o 34 ore, richiede comunque un’attenta valutazione, soprattutto se supportata da un marco legale sostenuto da incentivi statali che devono comunque rientrare nelle regole del cd. “de minimis”.
Il Governo, pur mostrando apertura verso l’idea, pone come prerequisito un significativo miglioramento della produttività e degli investimenti. Nel frattempo, sindacati e partiti politici continuano a spingere per riforme che possano rendere il lavoro più dignitoso e sostenibile, in linea con i principi costituzionali.
La strada verso una regolamentazione chiara e condivisa è ancora lunga, ma il dibattito in corso rappresenta un passo importante verso la realizzazione di un equilibrio tra le esigenze dei lavoratori e quelle delle imprese. Certamente, il primo passo tocca ai sindacati che devono mettere fra le proprie rivendicazioni la riduzione dell’orario massimo giornaliero e settimanale, senza dover necessariamente sottostare all’incentivo statale.
La contrattazione collettiva resta la prima leva che il sindacato deve pretendere di usare per adeguare le esigenze dei lavoratori al lavoro che cambia. La riduzione dell’orario di lavoro a 36 ore settimanali, secondo la FAST-Confsal, potrebbe essere una delle soluzioni adottabili con i rinnovi contrattuali, magari gradualmente, perché il tema incrocia la necessità di riportare i salari in Italia a livelli dignitosi affinché possano garantire che ogni lavoratore possa vivere un’esistenza libera e dignitosa, come previsto dalla nostra Costituzione.
E ciò soprattutto in un momento storico in cui l’avanzamento tecnologico ci sta riportando ad una forte perdita di occupazione ed a una nuova forma di “contract d’equipe” di ottocentesca memoria, rammentando a noi stessi che non è che la riduzione equivalga alla compressione della quantità lavoro delle 40 di partenza alle 36 di arrivo.