LA RAPPRESENTANZA SINDACALE IN AZIENDA: UN FENOMENO IN CONTINUA EVOLUZIONE CHE PECCA ANCORA DI EFFETTIVA DEMOCRATICITÀ…

Il fenomeno della rappresentanza dei lavoratori all’interno delle aziende si sviluppa a seguito della rivoluzione industriale dapprima in Inghilterra con le Trade Unions, poi in Germania con le Gewerkschaften e in Francia con le Borses du Travail.

In Italia verso la fine dell’800 nascono le prime Camere del lavoro a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice Penale (1890, codice Zanardelli) che aboliva i divieti di coalizione tra i lavoratori: da questo momento l’attività sindacale veniva ad essere tollerata dall’ordinamento giuridico.

 Le Commissioni interne compaiono per la prima volta in Italia agli inizi del ‘900; il primo accordo sindacale in materia fu quello del 1906 stipulato fra la FIOM e l’impresa ITALA di Torino.

Le Commissioni interne vengono soppresse con il Patto di Palazzo Vidoni del 1925, stipulato fra la Confederazione generale dell’industria e la Confederazione nazionale delle corporazioni fasciste.

Con la successiva legislazione corporativa l’unica forma di rappresentanza aziendale dei lavoratori ammessa è la figura del fiduciario di azienda.

Subito dopo la caduta del regime fascista, il 2 settembre 1943, viene stipulato un accordo fra le Confederazioni dei lavoratori dell’industria e la Confederazione degli industriali (c.d. patto Buozzi-Mazzini) che reintroduce nel campo delle relazioni industriali l’istituto delle Commissioni Interne attribuendo alle stesse anche poteri di contrattazione collettiva a livello aziendale.

 Un successivo accordo in materia viene stipulato il 7 agosto 1947, accordo che toglieva alle Commissioni Interne ogni potere contrattuale.

 Tale accordo viene rinnovato l’8 maggio 1953 e, in seguito, il 18 aprile 1966 con un restringimento dei compiti e dei poteri della struttura.

 La costituzione delle Commissioni Interne era affidata a gruppi di lavoratori se avveniva per la prima volta o se il mandato era scaduto, se invece le elezioni avvenivano prima della scadenza del mandato, era la stessa Commissione Interna in carica ad avviare la procedura di costituzione.

Le liste per le elezioni potevano essere presentate da qualsiasi gruppo di lavoratori, sia indipendente che inquadrato sindacalmente.

 Il numero dei componenti la Commissione Interna era determinato con un criterio direttamente proporzionale al numero dei lavoratori occupati in ciascuna unità aziendale.

Le elezioni erano a suffragio universale e ciascun lavoratore era chiamato a dare il suo voto per una lista all’interno della quale poteva esprimere delle preferenze.

Alla fine degli anni ’60 nascono nuove forme di rappresentanza unitaria di tutti i lavoratori dell’azienda che prescindevano dalla loro iscrizione o meno al sindacato: i Delegati ed i Consigli di Fabbrica.

Ogni reparto eleggeva il proprio “commissario” e questo formava con i commissari degli altri reparti il consiglio di fabbrica.

 Fra i commissari erano scelti tre operai che costituivano la Commissione interna.

Inizialmente, i Consigli sorsero in forma non coordinata, anzi in forte contrapposizione polemica con le organizzazioni sindacali, ma la spinta spontaneistica della base fu riassorbita già alla fine del 1969 ed il progressivo riassorbimento fu confermato e consolidato nel 1972 con il patto federativo fra la CGIL, la CISL e la UIL nel quale i Consigli di Fabbrica furono esplicitamente riconosciuti come l’istanza sindacale di base con poteri di contrattazione sui posti di lavoro.

La storia dei Consigli di fabbrica si chiude formalmente nel 1993, quando un protocollo siglato dai

sindacati confederali con Governo e Confindustria introdusse le Rappresentanze sindacali unitarie, con le quali una quota della rappresentanza tornava ad essere prerogativa delle strutture sindacali.

Le RSA furono le prime importanti forme organizzative formalizzate dalla legge nell’art. 19 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori).

Nella sua originaria formulazione l’art. 19 prevedeva, al fine della costituzione di una RSA, la compresenza di due requisiti:

 1.affiliazione del sindacato alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale;

 2.la sottoscrizione di un contratto collettivo applicato all’unità produttiva.

 

Tali criteri furono oggetto di forti critiche e si giunse così alla definizione di una nuova figura di

rappresentanza, la “RSU”, prevista per la prima volta proprio nell’Accordo interconfederale sottoscritto nel 1993.

Tuttavia, lo schema proposto inizialmente dalla norma originaria rischiava di sottrarre sindacati molto forti in azienda, ma non aderenti ai grandi sindacati nazionali, al diritto di formare rappresentanze sindacali, creando anomalie sul piano della effettiva “rappresentatività” e “rappresentanza” nei luoghi di lavoro.

Proprio in relazione a tale anomalia, e a quello che si potrebbe definire un vero e proprio deficit di “democrazia sindacale”, si giunse così all’Intesa-quadro del 1° marzo 1991 tra CGIL, CISL e UIL ed al successivo Accordo interconfederale 23 luglio 1993, sottoscritto da Governo, Confindustria, CGIL, CISL e UIL, che introdusse le Rappresentanze sindacali unitarie (RSU), la cui composizione derivava “per 2/3 da elezione da parte di tutti i lavoratori e per 1/3 da designazione o elezione da parte delle organizzazioni stipulanti il Ccnl”, che avessero presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti.

Come noto, il Protocollo del 23 luglio 1993 contiene un’embrionale regolamentazione delle Rappresentanze sindacali unitarie, ove si prevede tra l’altro che “il passaggio dalla disciplina delle RSA a quello delle RSU deve avvenire a parità di trattamento legislativo e contrattuale”.

L’Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993 precisa poi la disciplina per la costituzione ed il funzionamento delle RSU, cercando di definire le regole del subentro delle RSU e dei suoi componenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni delle RSA e dei suoi dirigenti.

Le diverse modalità di costituzione delle RSU rispetto alle RSA, la necessità di coordinare la fonte regolatrice negoziale delle RSU con le disposizioni legislative previste per le RSA, come pure la natura tendenzialmente collegiale delle RSU rispetto alla prevalente appartenenza associativa propria delle RSA hanno, peraltro, da subito generato contrasti e dubbi interpretativi nelle modalità di applicazione dei diritti sindacali del Titolo III dello Statuto dei Lavoratori al nuovo organismo ed ai suoi singoli componenti.

Le parti firmatarie di tale accordo hanno espressamente rinunciato a costituire una propria RSA, secondo il modello dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori e, in alternativa, hanno prefigurato una forma rappresentativa aziendale unitaria, cui convenzionalmente hanno riconosciuto l’insieme dei poteri e delle funzioni conferiti per legge alle singole RSA.

Oggi, pertanto, possono coesistere in ogni unità produttiva una RSU promossa e partecipata da tutte le organizzazioni sindacali che si riconoscono nel modello degli Accordi di luglio-dicembre 1993 e da quanto previsto nel Testo Unico sulla rappresentanza del gennaio 2014 (come integrato dall’Accordo 4 luglio 2017 con riguardo alla raccolta dei dati elettorali e dei dati relativi ai consensi dopo il subentro dell’INPS al CNEL per l’esercizio delle funzioni di misurazione della rappresentanza) e tante RSA in rappresentanza delle associazioni sindacali che non hanno aderito a tali accordi e che hanno preferito affidarsi al modello legale della RSA così come risultante sul piano della legittimazione dopo l’intervento della Cortecostituzionale 23 luglio 2013, n. 231 sottoscrizione del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva o meglio partecipazione alle trattative per la stipula di contratti collettivi applicati all’unità produttiva.

Un ulteriore intervento del legislatore per invertire la rotta c’è stato, non solo prevedendo strumenti di verifica dell’effettiva rappresentatività̀ delle associazioni sindacali ma anche per garantire alle associazioni dissenzienti l’esercizio dei diritti sindacali in azienda, specie se queste “attraverso una concreta, genuina ed incisiva azione sindacale pervengano a significativi livelli di reale consenso”, seguendo così il monito già̀ lanciato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 30/1990.

Il “Testo Unico sulla Rappresentanza” del 10 gennaio 2014 formalizza quali elementi vengono presi in considerazione ai fini della costituzione delle RSU statuendo che “per la misura e la certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria, si assumono i dati associativi (deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori) e i dati elettorali ottenuti (voti espressi) in occasione delle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie”. Il TU ha quindi introdotto un metodo misto che prevede, al fine di stabilire la titolarità di un soggetto di divenire parte attiva nella contrattazione, la media tra dato associativo e dato elettorale.

La seconda parte del Testo Unico, dedicata alla rappresentanza in azienda, introduce alcune significative novità ispirate a un’accentuazione dei profili di democraticità, ad es. l’eliminazione della clausola del c.d. terzo riservato, con l’effetto che i componenti della RSU sono ora esclusivamente individuati sulla base dei voti raccolti da ciascuna lista.

A livello aziendale l’Accordo del 2014 prevede che l’iniziativa per la costituzione delle RSU (nelle unità produttive con più di 15 dipendenti) e per la presentazione delle liste elettorali spetti alle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo 31 maggio 2013 e dell’Accordo interconfederale del 2014.

Va sottolineato che l’istituzione delle RSU ha la propria fonte regolativa in un accordo tra privati e non nel diritto oggettivo, avviene esclusivamente per volontà delle parti firmatarie dell’accordo interconfederale, le quali si sono impegnate reciprocamente a dare corpo non più a tante diverse RSA (una per ciascuna di esse), quanto piuttosto a costituire un unico soggetto che dovrebbe rappresentare tutti i lavoratori dell’unità produttiva.

Inoltre, la costituzione di RSU è affidata alle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva ed alle associazioni sindacali che abbiano comunque effettuato adesione formale al contenuto dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo 31 maggio 2013 e del TU 2014 e la cui lista elettorale sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti dall’unità produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 dipendenti (per il settore delle Agenzie per il lavoro cfr. l’Accordo 1° settembre 2016 e per il settore artigiano gli A.I. 23 novembre 2016 e 23 novembre 2016; per il settore Terziario gli A.I. 7 settembre 2017).

Invece, nelle aziende di dimensione compresa fra 16 e 59 dipendenti la lista dovrà essere corredata da almeno tre firme di lavoratori.

Le liste, una volta formate con tutti i parametri corretti, dovranno essere inviate alle “Commissioni Elettorali” entro la mezzanotte del quindicesimo giorno dalla formale indizione delle elezioni.

Proprio su questo aspetto delle “liste da inviare per la costituzione delle RSU” è fondamentale tenere presente che la raccolta delle firme è obbligatoria esclusivamente per le organizzazioni sindacali che non hanno aderito e stipulato il Testo Unico del 2014 e agli altri accordi a esso propedeutici, o che non siano firmatari del CCNL applicato alla realtà aziendale nella quale vengono indette le elezioni.

Giova prestare particolare attenzione a quest’elemento perché si è verificato in alcune realtà aziendali che: per depotenziare e mettere in difficoltà sindacati “meno blasonati” ma molto rappresentativi all’interno delle aziende, venissero “obbligate” attraverso regolamenti interni privi di aderenza all’effettivo rispetto degli accordi, alla raccolta delle firme per le elezioni delle RSU, nonostante avessero i requisiti di cui sopra e dunque non fossero tenute assolutamente all’attuazione di questo “meccanismo subordinato”.

Tutto questo riveste una notevole importanza strategica ai fini di una chiara e tangibile democraticità sindacale all’interno delle imprese italiane dal punto di vista della rappresentatività sindacale perché così si dà la possibilità di competere ad armi pari e di dimostrare le proprie abilità a tutte le organizzazioni dei lavoratori presenti con forza all’interno delle aziende.

Ora alla luce di questa ricostruzione storica su come è nata e si è evoluta la rappresentanza sindacale nelle aziende in Italia, vengono inevitabilmente fuori le “criticità” e  i punti deboli degli accordi che legiferano quest’importante fenomeno sindacale, come ad es. l’assenza di disposizioni nel Testo Unico del 2014 volte a sanzionare gli inadempimenti o i relativi ritardi dei datori di lavoro nel trasmettere i dati utili agli enti per definire la rappresentatività̀ delle organizzazioni sindacali sottoscriventi. Come anche la presenza di alcuni CCNL che subordinano la possibilità̀ di partecipare alla “negoziazione decentrata” alla sottoscrizione dell’accordo nazionale, mortificando il diritto al dissenso.

Emerge palesemente dall’esperienza sindacale italiana degli ultimi decenni, la necessità, forse, di una nuova legge sulla rappresentanza più flessibile, “liquida” come direbbe il sociologo Zygmunt Bauman, effettivamente democratica che vada a salvaguardare la partecipazione attiva e rappresentativa dei lavoratori e delle loro associazioni nel moderno sistema-lavoro e delle relazioni industriali e che soprattutto possa garantire la massima trasparenza per tutti i soggetti coinvolti.

 

 

Categoria: Analisi & Studi

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Article by: Francesco Cinelli