VERSO UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

La Proposta di Riduzione dell’Orario e il Ruolo del Sindacato


La proposta di legge presentata dai deputati Conte, Carotenuto, Aiello, Barzotti e Tucci rappresenta uno spunto interessante verso una nuova organizzazione del lavoro in Italia. L’iniziativa mira a introdurre una riduzione sperimentale dell’orario di attività fino a 32 ore settimanali, mantenendo la stessa retribuzione, attraverso accordi definiti nell’ambito della contrattazione collettiva. Questa proposta si inserisce in un contesto globale di trasformazione del mondo del lavoro, influenzato da fattori come lo sviluppo tecnologico, la pandemia “COVID-19” e la crescente richiesta di maggiore flessibilità e conciliazione tra vita privata e professionale.

L’Italia, secondo i dati dell’OCSE, è uno dei Paesi europei con il maggior numero di ore lavorate settimanalmente (33 ore), superiore alla media europea di 30 ore. Questo gap evidenzia la necessità di riformare l’organizzazione del lavoro per renderlo più sostenibile ed efficiente. Paesi come la Germania (26 ore settimanali) e i Paesi Bassi (28 ore) dimostrano che una riduzione dell’orario può portare benefici tangibili in termini di produttività e qualità della vita. La pandemia ha accelerato il dibattito su nuovi modelli organizzativi, dimostrando che la presenza fisica non è sempre indispensabile per garantire risultati efficaci. In questo scenario, la proposta italiana si pone come un tentativo di formalizzare una tendenza già in atto: la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, promuovendo una cultura del lavoro basata sulla responsabilità, la fiducia e l’efficienza.

Esperimenti simili sono già stati avviati in diversi Paesi europei. In Spagna, ad esempio, dal dicembre 2022 è in corso una sperimentazione triennale della settimana lavorativa di quattro giorni, coinvolgendo circa 200 aziende e tra 3.000 e 6.000 lavoratori. Lo Stato copre interamente i costi della transizione nel primo anno, dimezzandoli nel secondo e riducendoli a un terzo nel terzo anno. Anche il Regno Unito ha intrapreso un percorso simile: migliaia di dipendenti di 70 aziende hanno lavorato quattro giorni alla settimana, mantenendo lo stesso stipendio pur prestando la propria opera solo per l’80% delle ore previste. I risultati preliminari mostrano un aumento della motivazione e una riduzione dello stress, oltre a benefici ambientali grazie alla diminuzione del pendolarismo. In Islanda, tra il 2015 e il 2019, un esperimento su larga scala ha coinvolto circa 2.500 lavoratori del settore pubblico e privato, dimostrando che una settimana di quattro giorni migliora la qualità della vita senza compromettere la produttività. Oggi, l’86% dei lavoratori islandesi ha la possibilità di lavorare con orari ridotti.

Nonostante gli obiettivi condivisibili, però, la proposta solleva critiche e interrogativi. Una delle principali preoccupazioni attiene alla sostenibilità economica per le imprese. Garantire gli stessi salari per un numero inferiore di ore lavorate potrebbe rappresentare un onere insostenibile, soprattutto per le piccole e medie imprese italiane, che costituiscono la spina dorsale dell’economia nazionale. Se la produttività non aumenta proporzionalmente e rapidamente, le aziende potrebbero essere costrette a ridurre i margini di profitto o ad assumere nuovo personale, con conseguenze incerte sul mercato del lavoro. L’incentivo previsto dalla proposta – un esonero contributivo fino a 8.000 euro annui per ciascun lavoratore coinvolto – potrebbe non essere sufficiente per compensare i costi aggiuntivi. Il limite di spesa di 250 milioni di euro all’anno per il triennio 2024-2026 appare insufficiente per sostenere un cambiamento strutturale su larga scala. Inoltre, la riduzione dell’orario di lavoro non è garantita in tutti i settori. Mentre nel settore impiegatizio o nelle mansioni ad alta qualificazione la riduzione potrebbe funzionare, comparti come la manifattura, la logistica e i servizi potrebbero affrontare maggiori difficoltà nell’adattarsi. Le imprese potrebbero rispondere aumentando i ritmi di lavoro, riducendo le assunzioni o ricorrendo a contratti atipici, come quelli a tempo determinato.

Un altro aspetto cruciale riguarda la questione di genere. La riduzione dell’orario di lavoro potrebbe favorire una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, mitigando le disparità salariali e redistribuendo meglio i compiti familiari. Come evidenziato dagli studi di Claudia Goldin, economista di fama internazionale, il “lavoro avido” penalizza soprattutto le donne, che spesso rinunciano a ore lavorative per dedicarsi alla cura della famiglia. Una settimana più breve potrebbe quindi rappresentare un passo verso una maggiore equità di genere. Ma un utilizzo settoriale e circoscritto del nuovo strumento potrebbe anche creare indesiderate discriminazioni. A questo proposito, per monitorare l’impatto della sperimentazione, la proposta istituisce un Osservatorio nazionale sull’orario di lavoro, che avrà il compito di raccogliere dati e valutare i risultati della riduzione oraria, fornendo indicazioni utili per future politiche legislative, con sede presso l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Una scelta non del tutto condivisibile. Sarebbe preferibile prevedere che tale osservatorio venga istituito presso il CNEL con il contributo diretto delle parti sociali, del governo e del parlamento.

E non per motivi formali o di principio, ma perché il coinvolgimento del sindacato su questi temi assume una rilevanza determinante. Come FAST-Confsal, ad esempio, abbiamo avanzato una proposta specifica per il settore ferroviario, chiedendo di ripristinare le 36 ore settimanali medie mensili nel CCNL Mobilità Area AF. Questa richiesta si fonda su due motivazioni principali. In primo luogo, i lavoratori ferroviari avevano già raggiunto un equilibrio con le 36 ore settimanali medie mensili, calcolate nello sviluppo dei turni. L’aumento a 38 ore fu accettato come compromesso per favorire l’introduzione del CCNL Unico della Mobilità, un progetto che, tuttavia, non si è mai concretizzato. Ora che questa idea è definitivamente tramontata, appare legittimo chiedere di tornare alle condizioni precedenti, garantendo ai lavoratori un orario più sostenibile. Questo passaggio non è solo una questione di giustizia contrattuale, ma anche un modo per mitigare lo stress e il burnout che affliggono i dipendenti del settore ferroviario, spesso costretti a turni prolungati e irregolari. Secondo uno studio condotto dall’Università di Bologna nel 2021, i lavoratori del trasporto ferroviario presentano tassi di esaurimento emotivo e fisico significativamente più alti rispetto ad altri settori, con conseguenze negative sulla salute e sulla qualità del servizio offerto.

In secondo luogo, la proposta di FAST-Confsal si inserisce in un dibattito più ampio sulle condizioni salariali e di lavoro in Italia. Da tempo si discute del fatto che gli stipendi italiani siano tra i più bassi dell’Eurozona, con una media lorda mensile di circa 2.800 euro, contro i 4.000 euro della Germania e i 3.500 euro della Francia (dati Eurostat). Nonostante ciò, il dibattito sul salario minimo e sul recupero salariale rimane spesso astratto, senza tradursi in azioni concrete. In questo contesto, il sindacato ha il dovere di avanzare richieste adeguate per migliorare le condizioni dei lavoratori, non solo attraverso aumenti diretti delle retribuzioni, ma anche mediante misure indirette come la riduzione dell’orario di lavoro. Una settimana lavorativa più breve, come quella proposta da FAST-Confsal, rappresenterebbe un primo passo verso un recupero salariale indiretto, migliorando la qualità della vita dei lavoratori e riducendo il loro carico di stress.

Per quanto riguarda il settore ferroviario, la riduzione a 36 ore settimanali medie mensili potrebbe essere implementata gradualmente, tenendo conto delle specificità del settore e delle esigenze operative. Ad esempio, si potrebbe prevedere un periodo di transizione di 2-3 anni, durante il quale le aziende e i sindacati collaborano per riorganizzare i turni e ottimizzare l’uso delle risorse umane, a partire dal personale di esercizio, che attualmente paga il prezzo più alto, in termini di stress e affaticamento fisico, dell’orario portato a 38 ore settimanali. Inoltre, sarebbe opportuno introdurre incentivi economici per le imprese che adottano la riduzione oraria, come previsto dalla proposta di legge n. 1000 presentata in Parlamento, che come già detto prevede esoneri contributivi fino a 8.000 euro annui per ciascun lavoratore coinvolto. Contributo pubblico che, ovviamente, non potrà non essere temporaneo. Nel frattempo, attraverso una migliore organizzazione del lavoro, sarà necessario ottenere sensibili aumenti dei livelli di produttività, altrimenti il meccanismo virtuoso si trasformerà in un semplice sussidio a carico dei contribuenti di cui né le finanze pubbliche né il sistema economico hanno bisogno.

Ma la proposta di FAST-Confsal va al di là dello specifico ambito di applicazione. Essa rappresenta un’opportunità per il sindacato di assumere un ruolo responsabile e proattivo nel ridefinire le regole del lavoro in Italia. Il principio che si vuole affermare con la nostra iniziativa è che attraverso la contrattazione collettiva e il dialogo con le aziende si possa costruire un modello di organizzazione delle attività produttive che tenga conto sia delle esigenze dei lavoratori sia delle dinamiche del mercato, senza il quale, va sempre ricordato, nessuna attività produttiva può sopravvivere. La riduzione a 36 ore settimanali medie mensili per il settore ferroviario oltre ad essere una richiesta sostenibile e di buon senso in riferimento al contesto lavorativo e aziendale a cui è rivolta, è anche un passo più ampio verso la definizione di un nuovo ruolo del sindacato, che sia in grado di diventare parte attiva nella individuazione di regole volte a rendere il lavoro più equo, sostenibile e produttivo. L’esperienza internazionale dimostra che la riduzione dell’orario di lavoro può portare benefici tangibili, purché accompagnata da strategie mirate ed efficaci per aumentare la produttività e da un forte sostegno economico, almeno nella sua fase di avvio. Per l’Italia, una sperimentazione settoriale e gradualmente estesa sviluppata attraverso un reale confronto tra aziende, parti sociali e politica potrebbe rappresentare un compromesso praticabile, garantendo al contempo il benessere dei lavoratori e l’indispensabile competitività delle imprese. Mentre proposte calate dall’alto, senza il necessario contributo dei soggetti coinvolti, rischiano nella peggiore delle ipotesi di creare effetti negativi e indesiderati e nella migliore di essere l’ennesima bandierina politica buona solo ad alimentare polemiche senza incidere in maniera concreta sul nostro tessuto economico.

Categoria: Diario Sindacale

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Article by: Pietro Serbassi