IL SALARIO MINIMO PER L’EUROPA RAPPRESENTA ANCORA UNA REALE PRIORITA’?

In Europa la maggior parte dei Paesi ha adottato un salario minimo nazionale per tutelare i lavoratori e garantire una retribuzione adeguata. Tuttavia, esistono differenze significative tra gli Stati membri dell’Unione Europea, sia per quanto riguarda l’importo del salario minimo sia per le modalità di determinazione.

Attualmente 22 Paesi dei 27 Paesi dell’UE hanno un salario minimo nazionale. Gli importi variano notevolmente: Il Lussemburgo guida la classifica con circa 2.571 euro netti al mese, mentre la Bulgaria registra il salario minimo più basso, pari a circa 477 euro netti mensili. Tra questi due estremi si collocano Paesi come Francia, Germania, Spagna, con livelli intermedi.

Non tutti i Paesi, però, hanno adottato un salario minimo nazionale. Austria, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia, si affidano ai contratti collettivi per determinare i livelli salariali, lasciando che siano i datori di lavoro e i sindacati a negoziare le condizioni economiche.

A tal proposito si registra un possibile nuovo determinante capitolo alla questione:

lo scorso 14 gennaio 2025, infatti, l’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha depositato le conclusioni riguardanti la causa C-19/23, promossa dalla Danimarca e sostenuta dalla Svezia, invitando la Corte ad accogliere il ricorso danese e a dichiarare l’annullamento della Direttiva (UE) 2022/2041 sui salari minimi adeguati nell’UE, proprio la Direttiva che il 19/10/2022 ha stabilito delle nuove norme che promuovono i salari minimi adeguati al fine di realizzare per tutti i lavoratori dell’UE condizioni di vita e di lavoro dignitose, eque e rapportate al costo della vita con riferimento a tutti gli indici economici.

C’è da chiarire che Danimarca e Svezia non si oppongono a garanzie minime per i lavoratori, poiché entrambi i paesi hanno infatti un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore all’80% assicurando ai loro lavoratori ampie e tutele e coperture. Tuttavia la loro opposizione si basa sul modello consolidato di diritto del lavoro e relazioni industriali, che valorizza molto l’autonomia della parte sociali. In questi Paesi, salari e condizioni di lavoro non sono stabiliti per legge, ma determinati attraverso la contrattazione collettiva.

L’obiezione dunque, non riguarda il contenuto e i principi della Direttiva, essendo entrambi i Paesi già vincolati dalla Convenzione sulla fissazione del salario minimo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro OIL del 1970, bensì il principio di non interferenza nella materia delle retribuzioni e nel diritto di associazione, altro aspetto oggetto di contestazione.

L’Avvocato generale, però nello specifico, ha individuato tre errori principali nell’argomentazione del Legislatore europeo:

1.⁠ ⁠L’esclusione della “retribuzione” è limitata all’armonizzazione del livello dei salari. L’Avvocato generale evidenzia che l’art. 153, paragrafo 5, TFUE, utilizza un concetto ampio di “retribuzione”, includendo tutti gli aspetti relativi alla retribuzione, comprese le modalità o le procedure per la fissazione del livello di retribuzione, disciplinate dalla Direttiva.

2.⁠ ⁠In materia di retribuzione non esiste una competenza dell’UE, quindi non è consentita alcuna forma di intervento da parte del Legislatore Europeo e di armonizzazione.

3.⁠ ⁠L’esclusione della retribuzione dalle competenze dell’UE contribuisce a salvaguardare l’autonomia contrattuale delle parti sociali.

 Nel complesso, l’Avvocato generale raccomanda dunque alla Corte di annullare integralmente la Direttiva in quanto incompatibile con l’art. 153, paragrafo 5, TFUE rispetto al tema della retribuzione, poiché essa interferisce in maniera diretta con le competenze degli Stati membri, compromettendo l’autonomia dei loro sistemi nazionali di determinazione salariale.

È indubbio che la possibile bocciatura della Direttiva in questione rappresenterebbe una battuta d’arresto per i partiti e i sindacati che hanno sostenuto il salario minimo come strumento di lotta alla precarietà e alle disuguaglianze.

Se la Direttiva venisse cancellata o profondamente modificata dalla Corte di Giustizia Europea, quale sarebbero le conseguenze per i lavoratori e soprattutto per le parti sociali? Quale sarebbe lo spazio per la negoziazione e soprattutto quanto peso avrebbero le organizzazioni sindacali nel tracciare il sentiero di condizioni economiche proporzionate per i lavoratori europei?

In Italia soprattutto nel 2024 il dibattito sul salario minimo è stato fortemente al centro dell’attenzione dei protagonisti del diritto del lavoro, soprattutto per superare il fenomeno del “lavoro povero” nel rispetto dei principi della Carta Costituzionale e di proporzionalità e sufficienza.

Un ruolo centrale su questo tema nel nostro paese è stato assunto dal CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), il quale al termine di un’istruttoria recente ha emesso un parere sostenendo che il fenomeno del lavoro povero debba essere valutato in termini più ampi rispetto alla sola introduzione di un salario minimo garantito e valorizzando il ruolo della contrattazione collettiva, il cui tasso di copertura si avvicina al 100%.

L’eventuale modifica della Direttiva (UE) 2022/2041 rappresenterebbe un vantaggio o uno svantaggio nel nostro sistema di relazioni industriali, se si considera che secondo l’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) l’eventuale introduzione di un salario minimo di 9 euro all’ora coinvolgerebbe circa il 21% dei lavoratori dipendenti, pari a 2,6 milioni di persone, a fronte di circa 6,7 miliardi di costi per le imprese, calcolati sul salario mensile lordo?

Il salario minimo, per come lo si sta prospettando, risolverebbe realmente il grave problema dei working poor in Italia?

Categoria: Analisi & Studi

Article by: Francesco Cinelli