Allo studioso del nostro sistema giuslavoristico, il sindacato, soprattutto confederale, potrebbe sembrare non tanto un’organizzazione di lavoratori, quanto piuttosto un’istituzione, un potere parallelo come Chiesa e Magistratura, che resiste a ogni movimento tellurico, tentativo di riforma e logica di mercato.
CGIL, CISL e UIL, infatti, non appaiono più sindacati nel senso proprio del termine, ma apparati, strutture perenni che non rispondono ai lavoratori, come dovrebbero, quanto piuttosto al proprio ego e alla propria autoreferenzialità. E ciò in barba all’art. 39 della Costituzione che, pur sancendo la libertà sindacale, dovrebbe vedere tali organizzazioni nascere, crescere e, se necessario, morire, atto quest’ultimo che sembra impossibile in Italia.
Che sia una legge, un contratto collettivo o un tavolo di trattativa, tutti partono dallo stesso assioma dogmatico: CGIL, CISL e UIL esistono e devono essere lì, quasi si trattasse di un’entità imprescindibile, unite dal motto “confederale, ergo sum”.
I sindacati autonomi o indipendenti, invece, devono dimostrare costantemente la loro rappresentatività in base a criteri mutevoli e spesso discrezionali, trovandosi a competere in un contesto squilibrato, in cui le regole sono dettate da chi detiene il potere[1]. Il paradosso sta proprio qui: chi è già dentro gode di una sorta di diritto acquisito, mentre gli altri devono affrontare un percorso irto di ostacoli burocratici e politici. Calcisticamente parlando, una specie di VAR al servizio di chi possiede stadio, pallone, pubblico e terna arbitrale.
Il paradosso, perciò, sta qui: chi sta già dentro ha il diritto automatico di cittadinanza per legge salica, mentre gli altri devono scalare una montagna burocratica piena di grasso politico e, se anche arrivassero in cima, il sistema troverebbe[2], comunque, modo o maniera di evitare che essi nuocciano[3].
Nel libero mercato, un’impresa che perde clienti chiude, un partito che perde voti sparisce, un’associazione che non ha più iscritti si scioglie. Nel sindacalismo confederale, invece, la struttura sopravvive indipendentemente dai risultati, perché è ormai parte integrante dell’ingranaggio statale, un potere intoccabile che continua a pesare sul mondo del lavoro senza dover mai rendere conto a nessuno. E ciò perché esso è diventato parte dell’ingranaggio dello Stato, un potere intoccabile che continua a pesare sul mondo del lavoro senza dover mai rendere conto ad alcuno.
Se parlassimo di rappresentatività sindacale in un sistema sano, essa dovrebbe essere misurata con criteri chiari, trasparenti e uguali per tutti. In Italia, invece, rimane un concetto elastico, gestito con discrezionalità politica e accessibile solo a pochi. Chi è dentro il sistema resta dentro, chi è fuori resta fuori, con buona pace del pluralismo sindacale.
Ancora oggi si difende il sindacato confederale come corpo intermedio tra lavoratori e imprese, mentre le istituzioni fingono di non interferire nella sua organizzazione interna. Se da un lato la non interferenza può ritenersi un principio condivisibile, dall’altro, per garantire una rappresentatività libera e pluralista, tutti dovrebbero potersi misurare con le stesse regole. La realtà è ben diversa: per CGIL, CISL e UIL è stato creato un sistema chiuso, nel quale la rappresentatività è concessa solo a chi appartiene alla stessa logica corporativa, in cui i loro apparati si sono trasformati in strutture auto-conservative e impermeabili alle novità di altre organizzazioni, ritenute virus letali per la democrazia sindacale.
Dottrina e magistratura hanno contribuito a consolidare questo assetto, creando un equilibrio ambiguo tra diritto e politica. La giurisprudenza costituzionale ha spesso agito con un approccio più politico che giuridico, cercando di evitare che il valore del pluralismo degenerasse in una frammentazione incontrollata, e giustificando così la difesa del sistema vigente[4].
Oltre a queste anomalie, esiste un’altra questione fondamentale: l’autonomia dei sindacati rispetto alla politica. Storicamente, CGIL e CISL hanno avuto legami con i grandi partiti di massa, ma oggi questa relazione si è cristallizzata in una forma di potere parallelo. Un sindacato dovrebbe essere libero di schierarsi politicamente, ma altrettanto libero dovrebbe essere chi sceglie di restare autonomo. Solo i lavoratori dovrebbero essere giudici in materia, decidendo se iscriversi o meno, e non lo Stato o altre organizzazioni concorrenti. La libertà sindacale è garantita sulla carta, ma nella realtà chi si oppone al modello confederale viene sistematicamente emarginato, mentre chi aderisce gode di posizioni di rendita.
Il dibattito su rappresentanza e rappresentatività non può ridursi a una mera contrapposizione tra chi è “politico” e chi è “autonomo”. In Italia, la concorrenza tra organizzazioni sindacali è bloccata a monte. L’art. 39 della Costituzione sancisce il diritto dei lavoratori di organizzarsi liberamente, ma nella pratica questo diritto è costantemente aggirato da regolamenti pattizi che favoriscono sempre gli stessi soggetti. L’inattuazione dei commi da 2 a 4 ha lasciato spazio a un sistema informale che premia chi è già dentro e ostacola chi è fuori, creando un circolo vizioso: senza riconoscimento non si può accedere ai tavoli di trattativa, senza trattativa non si ottiene rappresentanza e senza rappresentanza non si può crescere.
La ricostruzione storica di questo fenomeno è spesso trascurata, ma non si può ignorare che alcune delle attuali dinamiche abbiano radici profonde nelle esperienze corporative del passato. Lo stato sociale contemporaneo possiede elementi di continuità con modelli precedenti, dimostrando che il sistema sindacale italiano necessita di una riforma radicale. Se un sindacato perde iscritti, dovrebbe perdere rappresentatività, e chi supera una determinata soglia non dovrebbe incontrare ostacoli burocratici o politici. La rappresentatività deve essere stabilita con criteri oggettivi e verificabili, senza scorciatoie o privilegi[5].
Il sindacato dovrebbe essere il ponte tra lavoratori e impresa, non una sovrastruttura autoreferenziale. Oggi CGIL, CISL e UIL sono diventate un pezzo dello Stato e, senza regole chiare, non rispondono ad alcun principio democratico se non a quello che decidono internamente. L’Italia non ha bisogno di un Sindacato di Stato, ma di un libero sindacato. Se invece continueremo a considerarlo un’istituzione intoccabile, non faremo altro che perpetuare la stagnazione attuale, dove la rappresentanza è solo un pretesto per esercitare potere[6].
[1] A. Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro-Il diritto sindacale, Vol. I, Padova, Cedam, 2008, p. 100. “(…) Quando il legislatore [nel 1970] ha deciso di intervenire non lo ha fatto in chiave di disciplina generale, bensì al solo fine di sostenere i sindacati dei lavoratori (…) vietando gli atti discriminatori dell’imprenditore (…) Ma, all’epoca, [questa scelta] servì anche ad aiutare le grandi confederazioni sindacali nel recupero della base coinvolta nei movimenti spontanei di contestazione culminati nell’autunno caldo del 1969, tant’è che ironicamente si disse trattarsi dello statuto non dei lavoratori, ma dei sindacati (…)”
[2] G. Giugni, Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 2004, pp. 62-63. “(…) Riconoscere, dunque, quei diritti a tutte le organizzazioni sindacali a prescindere da ogni vaglio di rappresentatività, da un lato sarebbe eccessivo rispetto allo scopo [dello Statuto], in quanto si favorirebbero anche organizzazioni che non sono realmente attrici del conflitto (…) [dall’altro] (…) sarebbe privo di giustificazione il sacrificio imposto all’imprenditore (…)”
[3] L. Galantino, Diritto sindacale, Torino, Giappichelli, 2003, p. 34 “(…) la ratio della linea legislativa di sostegno e di promozione del sindacato maggiormente rappresentativo è individuabile nell’esigenza delle moderne società democratiche economicamente avanzate di creare alte soglie di consenso nei confronti del sistema politico-economico (…)”
[4] M. Ricci, La giustizia costituzionale in tema di sindacato maggiormente rappresentativo negli anni Novanta, in AA.VV., Scritti in onore di Gino Giugni, Tomi I e II, Bari, Cacucci, 1999, pp. 945-947. “(…) L’ipotesi interpretativa (…) la Consulta abbia operato più come giudice di opportunità politica che come giudice di legittimità. [porti a dire che] Proprio sul tema in esame il giudice delle leggi ha inteso evitare che il valore del pluralismo si tramutasse nel disvalore della frantumazione e dispersione rappresentativa [e perciò questo spiegherebbe] le motivazioni della difesa conservativa del sistema, effettuata anche attraverso il tentativo di garantire da censure di incostituzionalità l’art. 19, prima nel vecchio testo, poi in quello nuovo (…)”
[5] F. Lanchester, <<Dottrina>> e politica nell’università italiana: Carlo Costamagna e il primo concorso di diritto corporativo, in Lavoro diritto, anno VIII, n.1, Bologna, Il Mulino, 1994. “(…) risulta trascurata la ricostruzione delle origini nazionali delle materie giuslavoristiche sulla base di un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, l’esperienza corporativa pareva essere altra rispetto alla dinamica delle problematiche che stavano sviluppandosi negli ordinamenti occidentali; in secondo luogo, esisteva una remora consolidata a [non] avvicinarsi a quella vicenda ed al dibattito pubblicistico degli anni del regime. (…) Una simile esclusione non risulta giustificata, poiché trascurare la intima interconnessione tra diritto corporativo e diritto del lavoro negli anni Venti e Trenta rischia di far rinunciare ad una realtà capace di illuminare anche il presente. Lo stato sociale contemporaneo possiede infatti elementi di omogeneità con esperienze di altre forme di stato e la continuità tra fascismo e post-fascismo (…)”
[6] R. Pessi, L’efficacia del diritto del lavoro, in Rivista Italiana Diritto Lavoro, 2009, I, p. 87-90. “(…) Siamo al neocorporativismo, cioè al riconoscimento dello Stato (ora solo negoziatore, ora, insieme, mediatore e negoziatore) delle corporazioni a contrattare; e conseguentemente dell’affermarsi di un modello istituzionale in cui il governo si realizza attraverso l’intermediazione degli interessi (…). Del resto, il successo del modello neocorporativo di Stato è dovuto al fatto che la legittimazione a contrattare è riconosciuta ad organizzazioni di interessi a forte coesione interna (…)”