Di recente il Tribunale di Bari Sez. Lavoro., sentenza del 17 dicembre 2024 (giudice Vernia), si è occupato del caso relativo al licenziamento di una persona diversamente abile, in quanto ritenuta inidonea alla mansione di appartenenza, in assenza di altri ruoli nei quali poterla ricollocare.
La questione principale della vicenda, come già accaduto per altri ricorsi simili, riguarda la nozione “Europea” di disabilità, con particolare riferimento alla definizione della Direttiva 2000/78/CE, come mutuata dalla Corte di giustizia secondo cui essa include: “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori e tale limitazione sia di lunga durata” (cfr. C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C- 337/2011, punto 47, nonché C. giust., 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16).
Nel caso di specie, la convenuta aveva eccepito che il lavoratore non aveva avuto alcun riconoscimento formale come persona disabile.
In merito, ha osservato preliminarmente il Tribunale di Bari, che ai fini della tutela antidiscriminatoria la nozione di disabilità “non è quella di carattere medico secondo le ll. n. 68/99 e 104/92, bensì di tipo relazionale, e considera cioè i processi di esclusione determinati da barriere economico sociali”.
In particolar modo, il giudice ha richiamato l’orientamento di Corte di cassazione secondo cui la tutela contro la discriminazione sulla base di disabilità si fonda sia sulla Direttiva 2000/78, sia sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, nonché sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, soprattutto, sugli articoli 21 e 26 di quest’ultima che garantiscono l’inserimento sociale e professionale di tale soggetto alla partecipazione alla vita della comunità.
Il lavoratore in questione, un operaio forestale, è stato licenziato per giustificato motivo oggettivo (art. 3 legge 604/1966), a causa di una sopraggiunta inidoneità a svolgere la propria mansione; lo stesso, quindi, ricorreva presso il Tribunale di Bari sostenendo che il licenziamento risultava illegittimo, in quanto la società non aveva posto in essere nessun accomodamento ragionevole, nonostante la grave invalidità, per consentirgli di mantenere il posto di lavoro in mansioni più consone al suo stato di salute, così come previsto da molte fonti normative italiane ed europee.
Il giudice barese ha evidenziato che in via generale sul datore di lavoro, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, ricade l’onere probatorio dell’impossibilità di ricollocare il lavoratore in mansioni alternative, anche di tipo inferiore, secondo l’ormai consolidato orientamento in tema di ripescaggio (Repêchage) cristallizzato dalla sentenza di Cassazione n. 10435/2018.
Nello specifico il Tribunale di Bari ha ritenuto che la società resistente non avesse dimostrato di aver posto in essere quegli accomodamenti ragionevoli necessari per mantenere in vita il rapporto di lavoro della persona diversamente abile, risultando del tutto generiche tutte le allegazioni e le motivazioni presentate.
Il giudice, inoltre, ha affermato che ai fini dell’adempimento dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli ex art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, la dimostrazione dell’impossibilità di adottare gli stessi non è sovrapponibile a quella circa l’impossibilità di adibire il ricorrente a mansioni equivalenti o inferiori. Continua sul punto il giudice che “non si è in presenza di un’ordinaria dimostrazione tesa all’assorbimento dell’obbligo di repêchage”, in quanto il datore di lavoro deve dimostrare che nell’adozione dell’accomodamento ragionevole abbia effettuato quello sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa che evitasse il recesso.
Osserva poi il Tribunale che la Suprema Corte ha ripetutamente affermato che tale fattispecie va interpretata nel senso che al datore di lavoro si impongono obblighi ulteriori nel caso in cui voglia licenziare un lavoratore in condizioni di disabilità (cfr. Cass. n. 6497/21; Cass. n. 15002/23; Cass. n. 31471/23; Cass. n. 35850/23; Cass. n. 10568/23).
Alla luce delle ragioni sin qui ricostruite, il Tribunale ha dichiarato l’illegittimità del recesso applicando, tuttavia, la tutela reintegratoria attenuata ex art. 18, comma 3, L. n. 300/70.
Questa recente sentenza del Tribunale di Bari, sulla scia di altre pronunce di legittimità, è molto significativa poichè ha tracciato un altro importante passo in avanti nella tutela dei lavoratori diversamente abili, i quali, nei casi di sopraggiunte inidoneità, rischiano seriamente di non poter essere ricollocati in mansioni alternative e di conseguenza subire procedimenti espulsivi, dalle gravissime conseguenze sociali.
Il principio più importante e innovativo sancito dalla sentenza in esame è che il datore di lavoro, nell’adottare gli accomodamenti ragionevoli, deve provare, allegare, documentare e motivare in maniera analitica, tutti gli atti compiuti affinché si possa evitare l’estrema ratio per i lavoratori più fragili, che a volte vengono dichiarati inidonei anche attraverso “escamotage normativi” forse proprio per alleggerire i costi del personale di alcune aziende poco virtuose.
Molta strada ancora c’è da percorrere in Italia nell’ambito della difesa dei diritti dei lavoratori fragili, ma il diritto europeo ci sta aprendo le porte verso un futuro fatto di sempre maggiore dignità!