Chi controlla davvero i binari d’Europa? Chi risponde quando una tragedia scuote la rete ferroviaria di uno Stato membro? E, soprattutto, che cosa significa oggi “liberalizzare” un servizio pubblico così strategico come quello ferroviario?
Non è un tema da tecnici, né una questione riservata a pochi addetti ai lavori. È, invece, una delle grandi partite politiche in corso nell’Unione Europea. E come tutte le partite importanti, si gioca sulla pelle dei cittadini.
Negli ultimi vent’anni, Bruxelles ha spinto con determinazione sulla cosiddetta liberalizzazione ferroviaria. L’idea, in sé, è semplice e in teoria virtuosa: aprire alla concorrenza, far entrare nuovi operatori, ridurre i costi per gli utenti, migliorare la qualità del servizio. Ma, come spesso accade, la teoria e la pratica hanno preso direzioni diverse.
Oggi siamo in una fase nuova e delicata. Con il Quarto pacchetto ferroviario, entrato pienamente in vigore tra il 2023 e il 2025, anche il trasporto passeggeri nazionale è stato aperto alla competizione. Non solo: l’Agenzia ferroviaria europea ha assunto un ruolo centrale, quasi arbitrale, nelle certificazioni di sicurezza e nelle autorizzazioni. Apparentemente, un passo avanti verso un’Europa dei trasporti integrata, moderna, interoperabile.
Eppure, dietro la retorica dell’efficienza e dell’uniformità, affiorano crepe profonde. Alcune di queste fanno rumore. Altre vengono coperte da un silenzio istituzionale assordante.
Il caso greco ne è l’esempio più lampante.
Nel 2023, un tragico incidente ferroviario a Tempe – 57 morti, decine di feriti – ha scosso la coscienza pubblica. Ma più della tragedia, è la sua gestione successiva a inquietare. Kostas Genidounias, presidente del sindacato macchinisti PEPE, che aveva collaborato con l’agenzia europea e con il nuovo organismo investigativo greco, è stato licenziato senza spiegazioni dalla società Hellenic Train. Proprio nel giorno in cui il Parlamento greco riceveva il rapporto finale sulla strage.
Coincidenza? Difficile crederlo. Le registrazioni e le testimonianze emerse in questi giorni a Bruxelles, durante una serie di incontri con europarlamentari organizzati dalla federazione sindacale europea ALE e dalla CESI, lasciano intendere un’altra verità: quella di un licenziamento su input politico, teso a silenziare una voce scomoda. Una voce che parlava di mancanze, negligenze e responsabilità.
Qui, la vicenda locale diventa simbolo di una contraddizione più grande.
L’Europa chiede liberalizzazioni, ma non garantisce un sistema di accountability coerente. Le imprese pubbliche si muovono come soggetti privati, ma spesso senza trasparenza. Le autorità nazionali restano proprietarie della rete, ma la vigilanza è demandata a Bruxelles. E quando le cose non funzionano, il risultato è che nessuno risponde. Né lo Stato, né la società, né l’Europa.
A peggiorare il quadro, c’è la revisione della direttiva europea sui macchinisti: un testo che dovrebbe rafforzare standard comuni, sicurezza e mobilità dei lavoratori. E invece rischia di diventare un terreno di compromesso al ribasso. Alcune lobby del settore premono per abbassare il livello linguistico richiesto (da B1 ad A2), in nome della carenza di personale. I sindacati – non senza ragione – si oppongono: abbassare gli standard significa aumentare i rischi, soprattutto in caso di emergenza, dove la comunicazione è tutto.
A tutto questo si aggiunge il grande nodo infrastrutturale.
La concorrenza tra operatori funziona solo se le reti sono adeguate, le stazioni potenziate, i depositi rinnovati. Invece, in molti Paesi – Italia inclusa – si assiste a una corsa al profitto su linee redditizie, senza i necessari investimenti pubblici. E nel trasporto merci, nonostante gli obiettivi ambientali del Green Deal, il traffico su gomma continua a vincere su quello su ferro. Una liberalizzazione zoppa, che rischia di alimentare sfiducia e conflitto sociale.
C’è, però, una strada possibile.
Lo dimostra la Spagna, dove in pochi anni il 90% del personale di guida è stato rinnovato, rendendo la professione attrattiva per i giovani. Come? Con buone condizioni di lavoro, formazione di qualità, e un approccio pragmatico alla concorrenza.
È questa la lezione: liberalizzare non significa abbandonare il controllo, né svendere la sicurezza. Significa regolare, investire, vigilare. Significa anche ascoltare chi lavora nei treni, non solo chi li amministra da una sede a Bruxelles o da una holding a Roma.
L’Europa ferroviaria è a un bivio.
Può diventare il cuore di una mobilità sostenibile e integrata, al servizio di cittadini e territori.
Oppure può deragliare sotto il peso delle sue contraddizioni, tra interessi industriali, pressioni politiche e silenzi colpevoli.
Il caso Tempe – e il licenziamento di chi ha avuto il coraggio di denunciare – ci avverte: non c’è integrazione senza giustizia, non c’è sicurezza senza verità.
E, soprattutto, non c’è Europa senza responsabilità.