INTERCITY, IL BIVIO DEL 2027: GARA OBBLIGATA O SCELTA POLITICA?

Tra diritto europeo e volontà nazionale, l’Italia deve decidere che ferrovie vuole


Il 1° gennaio 2027 scade il contratto di servizio universale che dal 2017 lega Trenitalia allo Stato per la gestione degli Intercity.

Da mesi si dà per scontato che si passerà alla gara europea, con tre lotti e una durata fino a quindici anni.

Lo dice la pre-informazione pubblicata dal Ministero delle Infrastrutture, lo ripetono i comunicati ufficiali, lo scrivono le cronache economiche.

Eppure, a ben guardare, non è affatto scritto che quella sia l’unica strada.

L’Europa, con il Regolamento 1370 del 2007 modificato nel 2016, ha introdotto la regola della gara come criterio ordinario per i servizi ferroviari in obbligo di servizio pubblico. Ma nello stesso testo ha lasciato aperta una finestra: gli Stati possono ricorrere all’affidamento diretto se dimostrano che quella formula garantisce maggiore qualità ed efficienza, fissano obiettivi misurabili, prevedono penali concrete e verifiche periodiche, notificano la scelta a Bruxelles.

Non un escamotage, ma una possibilità reale, già utilizzata da Paesi che hanno preferito stabilità e continuità alla corsa competitiva.

Il Belgio ha firmato nel 2022 un contratto diretto con la SNCB fino al 2032, imponendo obiettivi stringenti di puntualità e di rinnovo della flotta.

La Spagna ha confermato il proprio affidamento a Renfe per i servizi regionali e a media distanza, fissando un orizzonte fino al 2027.

Il Portogallo ha scelto di tenere CP almeno fino al 2029, legando il diretto a un piano di modernizzazione dei treni.

In tutti questi casi il diretto è stato trasformato in leva di investimento e non in rendita.

Dove invece le cautele sono mancate, come nei Paesi Bassi con la decisione di riaffidare NS fino al 2033 senza un’istruttoria adeguata, la Commissione europea ha avviato un’infrazione e deferito la questione alla Corte di giustizia.

L’insegnamento è chiaro: il diretto si può fare, ma solo se blindato da atti pubblici e da un sistema di obiettivi verificabili.

L’Italia dunque si trova a un bivio.

Può seguire la strada già tracciata della gara, con i rischi di frammentazione e di una competizione al ribasso, oppure può scegliere di motivare un nuovo affidamento diretto, impostandolo come un vero patto industriale.

In entrambi i casi, la posta in gioco è la stessa: la vita di migliaia di lavoratori, la gestione di asset strategici come locomotive, carrozze e officine, la qualità del servizio per milioni di cittadini che usano gli Intercity non per scelta ma per necessità.

E qui emerge un punto cruciale, troppo spesso ignorato: l’obbligo di applicare il contratto collettivo nazionale della Mobilità – Area Attività Ferroviarie.

Quel contratto non è un tecnicismo, è il fondamento che garantisce condizioni di lavoro uniformi, regole certe su orari e turnazioni, standard comuni di sicurezza.

Non è un privilegio sindacale, ma una condizione di sistema: senza l’applicazione vincolante di quel CCNL si rischia di aprire varchi a contratti spurii, con conseguente dumping, concorrenza sleale sul costo del lavoro e una inevitabile ricaduta sulla qualità del servizio.

È un obbligo che deve essere scritto nei capitolati o nel nuovo affidamento diretto, perché non basta più il riferimento generico ai contratti “di settore”: serve un vincolo preciso, riconosciuto e verificabile.

Questa esigenza si lega anche a una constatazione: Trenitalia, negli ultimi dieci anni, ha saputo utilizzare i finanziamenti pubblici garantiti dall’attuale contratto per rinnovare e rilanciare gli Intercity, con interventi sul parco rotabile, nuove livree, programmi di revamping e una gestione che ha progressivamente migliorato gli standard rispetto a un servizio che rischiava l’obsolescenza.

Sarebbe paradossale interrompere questo percorso proprio nel momento in cui si cominciano a raccogliere i frutti degli investimenti fatti grazie a risorse pubbliche e vincolate.

L’affidamento diretto a Trenitalia non significherebbe un ritorno alla rendita, ma la prosecuzione di un cammino già avviato e che può essere rafforzato con vincoli stringenti su qualità, controlli e trasparenza.

E qui si apre il tema decisivo dei controlli. Perché la vera differenza non la fa la formula giuridica scelta, ma la capacità dello Stato di vigilare. Troppo spesso i contratti di servizio sono stati firmati e poi lasciati scivolare, senza verifiche serie sugli standard promessi.

È tempo che lo Stato recuperi appieno il suo ruolo di regolatore, non solo come erogatore di risorse, ma come soggetto che controlla e misura la qualità del servizio e il rispetto delle regole, inclusa l’applicazione del CCNL. Controlli indipendenti, verifiche periodiche, pubblicazione dei dati: è questa la rete che rende credibile un affidamento diretto.

Lo ricordava Friedrich Hayek: “La concorrenza è un metodo di scoperta, non un fine in sé”.

Quando si parla di servizio universale da affidare a un unico gestore, non significa bloccare i processi di liberalizzazione, significa governarli.

Significa garantire che la concorrenza serva a migliorare il servizio e non a smontarlo, che il gestore unico sia vincolato da obblighi chiari e verificati.

È questa, secondo noi, la strada più saggia: un affidamento diretto a Trenitalia, accompagnato da controlli rigorosi e dall’obbligo di applicazione del CCNL Mobilità – AF e integrativo aziendale. Questa scelta, che offre maggiori garanzie ai lavoratori e agli utenti, assicura continuità industriale e riduce i rischi di conflitto.

Non significa rinunciare alla modernizzazione né chiudere la porta al mercato, significa governare il cambiamento invece di subirlo.

Per questo invitiamo Governo e Parlamento ad aprire un confronto serio con il sindacato: perché non c’è futuro del servizio ferroviario senza lavoro tutelato, senza investimenti garantiti e senza uno Stato che torni a fare pienamente il suo mestiere di regolatore.

 

Categoria: L'Editoriale

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Article by: Pietro Serbassi