IN ITALIA C’È ANCORA POSTO PER IL DISSENSO?

Riflessioni su scioperi generali e dintorni.


Lunedì 22 settembre molte lavoratrici e lavoratori con studenti e pensionati hanno riempito le piazze di molte città italiane per manifestare la propria indignazione per la guerra in corso nella striscia di Gaza e contro le politiche di riarmo del governo in carica.

La parola d’ordine dello sciopero è stata: “Blocchiamo tutto!”. Qualcuno pacificamente ci è riuscito a bloccare strade e stazioni e porti per portare all’attenzione dell’opinione pubblica il dissenso crescente verso l’immobilismo della politica nel condannare quello che sta accadendo in una striscia di territorio. In alcune piazze, invece, è stato impedito questo. Inevitabili gli scontri, che condanniamo.

Condanniamo anche chi s’indigna più per le vetrine rotte che per le decine di migliaia di bambini e civili che muoio ogni giorno a Gaza.

Perché stupirsi, viviamo, oramai, in una società che mette al primo posto il valore delle cose alla vita. Sono parole forti lo so, ma in questo momento storico bisogna essere eretici.

Fermarsi a ragionare. E allora facciamolo. Perché la maggior parte delle persone non capisce più lo sciopero?

Il principio stesso dello sciopero è di interrompere il normale funzionamento della società per mostrare che esiste un punto di rottura, una forza collettiva capace di bloccare il meccanismo. Invece siamo una società anestetizzata. Ci sono riusciti. Lo abbiamo permesso. Ci è riuscita la parte padronale che con gli organi d’informazione teleguidati a ogni sciopero fanno partire i soliti articoli: “Scioperano per fare il weekend”, “sono portati a Roma a manifestare con la pagnottella e bus inclusi” “i soliti quattro gatti” “lo sciopero non permette di far andare a lavoro” e così via. Molto bersagliati sono gli scioperi nei pubblici servizi, ultimo pezzo di quel che resta dello stato sociale che a piccole picconate stanno smantellando.

E allora mi chiedo, in questo Paese c’è ancora posto per manifestare il dissenso? Si può manifestare la propria idea senza che poi si finisca a etichettarla come “sbagliata” in virtù di un meccanismo da tifoseria?

Vedete, per chi scrive, le manifestazioni sono il momento più bello della democrazia. Invece, i media padronali, le stanno dipingendo come folclore, come sagra paesana (con tutto il rispetto alle sagre paesane). Mi si può dire: “Ma manifestare non serve più a niente, tanto poi fanno come vogliono”. È vero di primo impatto. Quanti scioperi abbiamo intrapreso per il rinnovo dei contratti di lavoro per chiedere quello che per noi sembra il minimo, ma poi si accordano sotto la soglia del minimo. Bisogna iniziare, o tornare, a essere eretici e chiedere di più, di essere eretici con chi ci rappresenta ai tavoli. Bisogna tornare a partecipare. Gaber cantava libertà è partecipazione. È quello che ci manca la partecipazione e quindi la libertà. Dobbiamo tornare a frequentare i luoghi di lavoro e i sindacati e le piazze e non chiuderci a riccio e delegare gli altri. Basta deleghe in bianco. Facciamoci sentire! Facciamo rumore!

Cerchiamo di difendere la democrazia, è lei sotto attacco. Sotto attacco da parte di quell’ultra capitalismo che la vede come ostacolo. Ostacolo al “produci, consuma, crepa” (come cantava un gruppo punk italiano negli anni 80). Il dissenso, le idee eretiche, le manifestazioni sono un ostacolo per la parte imprenditoriale perché pongono domande, fanno riflettere la collettività. Come sono ostacoli i pubblici servizi, o quello che ne rimane. Per pubblici servizi intendo scuola e ricerca, sanità e trasporti. Queste tre entità sono messe in discussione dal sistema capitalistico perché sono visti come intralcio al mercato. Perché il mercato vuole solo trarre profitto, su tutto. Mentre i servizi pubblici si prendono cura di chi rimane indietro, di chi ha un altro passo e non riesce ad avere il ritmo di tutti. Prendiamo come esempio la sanità. La stanno trasformando in una sanità degli ultimi di chi non si può permettere costose assicurazioni sanitarie integrative (che poi sono sempre a carico della collettività) e questi ultimi che si rivolgono alla sanità pubblica affrontano liste di attesa lunghissime per avere riconosciuta l’assistenza che chiede. Per non parlare del tanto pubblicizzato welfare aziendale. Un altro metodo per tenere bassi i salari e quindi le pensioni e scaricare sulla fiscalità generale i costi. Ecco la verità. Ma pochi ne parlano. O forse pochi sono eretici e si fermano a studiare e a criticare le zone grigie. Negli anni 90 con lo smantellamento delle aziende statali (SIP/Telecom, Enel, Italgas, ENI) e le politiche liberiste intraprese dalla politica (tutta, sia ben chiaro) hanno fatto credere, o ci siamo cascati, che con meno stato e più mercato saremmo stati meglio. Invece ce ne stiamo accorgendo ora che le liberalizzazioni hanno, di fatto, scaricato i costi sui consumatori. Ora sono rimasti questi tre baluardi (scuola, sanità e trasporti) a essere bersagliati dal “meno stato più mercato”. Norme sempre più cavillose per proclamare e partecipare a uno sciopero, assottigliamento dei fondi pubblici in modo tale da portare al collasso e quindi al malfunzionamento le aziende di trasporto pubblico, le scuole e gli ospedali, commissione di Garanzia sugli scioperi sempre più giudice anziché arbitro.

Svegliamoci! Agitiamoci! Prima che sia troppo tardi. Prima che questi baluardi siano capitolati, facciamolo per onorare le lotte passate dei lavoratori, facciamolo per le future generazioni. Lasciamo questo Paese migliore di come lo abbiamo trovato.

Categoria: Punti di vista

Tags:

Article by: Andrea Pepè